Le cose di dopo

Il Contest del FLA2020

Un vero ritorno

di Alessandro Ruffo

I primi boccioli spuntavano tra i resti delle case sventrate. Finalmente. Carlo sorrise a Lucia indicandole con orgoglio il punto dove il grano sarebbe presto maturato. Entusiasta quanto un naufrago appena tratto in salvo, l'uomo si diresse verso l'ufficio del Prefetto, un ammasso di lamiere logore tenuto insieme a fatica da un paio di corde.

«Ha funzionato, il suolo è tornato coltivabile!», gridò attraversando di corsa quella che un tempo era la piazza principale della città.

L'anziana guida della comunità, incredula, non la smetteva di aprire e chiudere la bocca come se stesse masticando aria. Forse, quell'inverno, nessuno sarebbe morto di fame. Istintivamente andò incontro a Carlo e lo abbracciò forte, decidendo che quella sera avrebbero festeggiato.

Al tramonto i venti superstiti dell'olocausto nucleare si riunirono attorno al fuoco, aprendo l'ultima botte di birra e intonando l'inno della loro vecchia patria. Riuscire a sopravvivere appariva ora molto più probabile di quando, poche settimane prima, erano usciti dal bunker. Il volto di Lucia era come congelato in un'espressione di giubilo; era orgogliosa di Carlo al quale prometteva con lo sguardo una notte di passione.

Dopo aver bevuto e cantato i due si recarono nel bosco, lontano dal traballante palazzo in cui gli altri erano andati a dormire. Lungo il tragitto notarono però qualcosa d'insolito: c'era una luce all'orizzonte, una luce che proiettava sull'asfalto ombre impazzite che turbinavano come foglie nel vento. Sparì in un istante, ma fu abbastanza anomala da turbarli profondamente. Tornarono quindi indietro e, con fatica, svegliarono il Prefetto.

«Sarà stata l'ombra del cazzo di Carlo», sghignazzò l'uomo, completamente ubriaco, incapace perfino di tenere aperte le palpebre. Gli altri, ridotti in uno stato analogo, non prestarono attenzione alle parole della coppia. I due trascorsero quindi la notte a vegliare alla finestra, troppo agitati per prendere sonno. All'alba, ritrovata un po' di calma, si diressero verso i campi.

Carlo neanche realizzò che era stata una freccia a trapassargli la gola quando s'accasciò al suolo senza vita pochi secondi dopo. Luisa, sporca di sangue, iniziò a urlare disperata. Un uomo le tappò la bocca con la mano zittendola per sempre con una coltellata mentre i suoi compagni, coperti da aguzze armature e con armi di fortuna in pugno, entravano nella struttura, pronti al massacro. Con occhi muti Luisa fissò il volto del suo assassino, come a chiedergli la ragione di tale sterminio. L'uomo la guardò e rise.

 

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