Le cose di dopo

Il Contest del FLA2020

Mio padre

di Martina Marotta

«Hai qualcosa da lavare?». Faccio capolino in salotto, lui non alza lo sguardo dal suo libro. Gli ripeto la domanda, così da attirare la sua attenzione, ma solo il tempo necessario ad indicarmi la sedia che ha di fronte con un cenno del capo. Si veste sempre a strati, e in questa stagione, quando rientra tra le calde mura di casa, ha l’abitudine di sfilarsi gli abiti più pesanti e gettarli nel primo posto utile. Chiedere a lui è sempre meglio che cercarli sparsi tra il divano e il tavolo da cucina. Recupero il maglione che mio padre mi ha indicato. Lo avvicino al viso per coglierne l’odore familiare, e il profumo pungente di tabacco misto a quello della sua pelle mi attraversa le narici. Un ricordo manifesta la sua presenza senza che alcuna immagine mi si formi nella mente. Ci siamo io e qualcosa che dovrei ricordare, ma che non ha la forza di emergere, come incastrato e desideroso di liberarsi. Mio padre è lì accanto a me, presente e più reale che mai; impossibile che sia la nostalgia a muovere i fili di questo ricordo senza voce.
Poi, mentre gli occhi già cominciano a bruciarmi, capisco. È davvero nostalgia, quella che sento. Ma non si riferisce ad un tempo passato. È un senso di mancanza proiettato negli anni a venire, quello che proverò un giorno nel sentire il profumo di mio padre, ormai vivo solo nei miei ricordi e nei vestiti pieni di lui.
Con la coda dell’occhio noto che mi sta fissando, il libro appoggiato sul tavolino e la pipa sospesa a mezz’aria. Io ho ancora il viso affondato nel tessuto, fazzoletto improvvisato per le mie lacrime.
Mio padre si alza lentamente dalla poltrona ed esce sul balcone, accostando delicatamente la finestra per non far entrare in casa il freddo di dicembre. Lui, figlio di genitori per i quali i sentimenti erano sempre da reprimere e il silenzio era la miglior risposta da dare e ricevere.
È fuori dal mio raggio visivo, ma so che adesso sta mandando fuori grandi boccate di fumo, si gratta il mento, pensieroso, e si chiede cos’abbia che non va questa sua figlia incomprensibile. Nata prima del giorno previsto, lacrima facile, la testa sempre in altri luoghi che solo lei conosce.
Non posso sapere se sia davvero questo ciò che sta pensando. Magari è più distratto dal tabacco e dal suo sapore insolito, perché ieri ha comprato quello sbagliato.
Ritorno alla rivelazione di pochi istanti prima, e cerco di immaginare il tempo dopo di lui, il futuro senza mio padre. Tremo nell’elaborare un pensiero così, le gambe quasi cedono.
Il dopo di lui potrà essere tra un attimo, o tra tantissimo tempo.
Ci sono stati tanti “dopo” nella storia dell’umanità, rifletto per distrarmi dalla mia storia personale. Linee nette di confine tra ciò che ritenevamo famigliare e ciò che abbiamo accolto o accettato nostro malgrado. Nella mente scorrono immagini veloci, che mi aiutano ad allontanare per un attimo il pensiero di mio padre.
Settembre 2001, un aereo si schianta contro un palazzo, fumo nero, urla; un quadro di Thomas Cole sul mio libro di storia delle superiori, Roma in fiamme e il titolo del capitolo, “La caduta dell’Impero Romano d’Occidente”; un uomo su un palco, maglione nero, alle sue spalle il logo di una mela addentata: la presentazione del primo Iphone; una bambina impara ad andare in bicicletta, è tranquilla perché sa che suo padre è lì a guidarla. Si gira in cerca di un sorriso rassicurante e lo trova, ma a distanza di qualche metro, perché lui l’ha lasciata e ora sta pedalando da sola.
Scuoto il capo con energia. Pensare agli avvenimenti che hanno segnato un prima e un dopo per la civiltà, che fossero tragici o innovativi, non è stato sufficiente ad eclissare i ricordi d’infanzia.
Non mi accorgo nemmeno di essere uscita dal salotto e di aver raggiunto la lavatrice. La carico di tutti i vestiti che ho tra le braccia, lanciandoli nel cestello come fossero i miei pensieri da ripulire dell’angoscia che li impregna.
Anche questo che sto vivendo è un dopo, perché in fin dei conti c’è stato un prima. Il prima in cui a malapena sapevo scegliere il programma giusto per avviare la lavatrice, perché ad occuparsene era sempre mamma. Il prima in cui lei era come uno spettro in casa propria, finché non ha capito che non era tardi per ricominciare. Lontana da un marito silenzioso. Lontana da una figlia che sarebbe stata di troppo. E nessuno mi ha insegnato ad usare questo elettrodomestico, così come non mi è stato spiegato in che modo affrontare il dopo. Perché il dopo era arrivato senza che io sapessi che era tale. Era semplicemente un presente scomodo da vivere.
E quando arriverà un dopo in cui anche mio padre si tramuterà in un ricordo doloroso, saprò affrontarlo, ma non è ancora arrivato il momento.
E il prima? Il prima è adesso, con quest’uomo solitario che lavora, fuma la sua pipa, ogni tanto mi dà una pacca sulla spalla. Mio padre, che è rimasto.
Mi sento tranquilla, ora. Respiro più lentamente.
Mi riaffaccio al salotto. Papà è rientrato e sta leggendo il suo libro. Sta bene, è con me.
Dovrei parlarci di più. Dovrei.

 

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