Le cose di dopo

Il Contest del FLA2020

Minaccia

di Andrea Tiradritti

Il respiro della città, solitamente attraversato da strepiti e baccano, veniva ora scandito soltanto dal metallico lampeggiare di semafori e dallo scorrere sui cartelloni pubblicitari dello stesso spot in ripetizione. Una donna mostrava con orgoglio alla videocamera il suo ultimo acquisto, una crema rossastra che avrebbe reso le sue mani morbide come la seta, irresistibili per qualsiasi uomo. L’audio della pubblicità era stato mutato, così che per quanto la giovane signora recitasse con enfasi la sua parte, ammiccando seducente nei confronti del pubblico e ostentando in ogni modo la sua felicità, più che a una donna libera assomigliava piuttosto a un pesce in gabbia, inquietantemente allegro nonostante l’oppressione della sua prigionia. D’altronde, l’intera città sembrava ormai galleggiare in un gigantesco acquario. Attutiti i rumori, spariti il traffico e i commerci, nulla si muoveva se non poche foglie sospinte dal vento, vecchie pagine di giornali, cumuli di polvere e alcuni volantini sbiaditi. Le saracinesche calate dei negozi si ergevano come muri invalicabili, mentre i manichini esposti nelle vetrine apparivano tristi e assorti, un esercito di automi pronto a sostituire gli umani non appena qualcuno gli avesse impartito l’ordine di farlo. A proposito degli umani, essi vivevano da settimane reclusi nelle proprie abitazioni. Costantemente assediati da una minaccia invisibile avevano prima cercato di darsi conforto, convincendosi come potevano che quella situazione sarebbe presto tornata alla normalità, ma poi sempre più avevano finito per cedere alla paura e alla tentazione di vedere il pericolo insidiarsi ovunque. Il loro avanzato sistema democratico sprofondò in breve tempo in un regime militare. La comunità si frammentò in miriadi di tribù, ognuna in lotta con le altre e retta da un capo dispotico. Questo, quasi sempre un uomo adulto, veniva scelto in base alla forza e all’istinto, diventando per ciò l’unico autorizzato a scendere in strada al fine di procurare il cibo alla famiglia di cui era responsabile. Chiunque non appartenesse a questa casta e fosse stato sorpreso a vagare senza permesso, poco importava se spinto dalla miseria o dalla fame, veniva immediatamente eliminato dalle milizie governative. Spesso erano gli stessi abitanti - molti dei quali passavano l’intera giornata affacciati alla finestra - a denunciare alla polizia gli individui sospetti, favorendone compiaciuti l’identificazione e l’inevitabile morte. Così, fra una sparatoria in strada e un film alla televisione, i giorni si addensavano uguali, ripetendosi stancamente in una nube indissolubile di tedio e terrore. Ogni luna portava con sé la speranza di una liberazione, ogni sole ne riaffermava la radicale impossibilità. Seppure in teoria l’attacco potesse essere sferrato in qualsiasi punto della città, fin dall’inizio dell’emergenza le varie squadre d’esperti furono concordi nel ritenere il Ponte, per via della sua posizione e della sua importanza simbolica, il sito che fra tutti era notevolmente il più esposto. Per questo ogni giorno decine di agenti, insieme a diversi furgoni blindati, numerosi pattuglie, automezzi e addirittura un carro armato, rimanevano schierati a sua protezione in attesa di ingaggiare lo scontro. Allineati contro un nemico impalpabile, gli agenti si trovavano a fissare per ore l’immenso vuoto che avevano di fronte senza che nulla di sospetto facesse mai sobbalzare i loro nervi.
«Quando finirà questa follia?» domandò un giorno un agente al suo vicino di schieramento. L’altro si voltò, accennando un sorriso. Il sudore sul suo volto riluceva argentato attraverso il casco antisommossa.
«Prima dovremmo capire quand’è iniziata» rispose infine, guardando dritto verso il Ponte abbandonato. Entrambi trattennero il fiato. In cielo stormi di passeri disegnavano irrequiete traiettorie di fuga. Nessun mostro fu avvistato, nessun nemico fu abbattuto. Giù fra gli archi del Ponte continuava imperterrito a ruggire il fiume.

 

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