Le cose di dopo

Il Contest del FLA2020

Le nostre nostalgie futuribili

di AttilioA.

Mi chiamo Truman Levi. Se non vi interessa che io vi parli di me, semplicemente non andate avanti. Solo adesso posso capire quanto conti esprimersi senza la pressione di dover essere compresi. Scrivo a macchina. Era di mio nonno. Non posso sbagliare. Nemmeno una frase. Se sbaglio, non posso tornare indietro. Anche nelle cose della vita sembra essere così. Sarò paziente con me stesso. Mio nonno diceva che ognuno ha un suo copione. Noi viviamo per comprenderlo. Questa storia del destino mi ha sempre turbato, ma la mia fede in esso no, e allora non ci ho mai pensato troppo. Sono nato perché mio nonno non è morto troppo presto. Quando i tedeschi gli hanno puntato un mitra davanti al petto lui poteva scegliere: morire o no. Una scelta banale, pensate. Le scelte sono sempre banali quando le alternative sono due ed opposte. Non era quello il caso. L’alternativa al mitra era gettarsi nel fiume in pieno inverno. Una opportunità fasulla: i tedeschi sapevano che sarebbe morto lo stesso. Era il loro povero e unico gaudio: determinare la fine della vita degli altri significava trovare, in quel tempo folle, un senso. Mio nonno si salvò. La chiesa davanti a cui oggi passo, e che per me non significa nulla, è quella dove si mangiava tutti insieme solo cocomero e pane, con la circospezione che in guerra avvelena gli sguardi degli uomini. Una delle case davanti a cui oggi passeggio, e che per me è anonima come tutte le altre, è quella dove un anziano, che oggi può raccontarmelo, rifiutò una caramella da un tedesco durante i rastrellamenti: un gesto che terrorizzò intere generazioni. Le persone di quel periodo le riconosco da alcuni aspetti: la parsimonia, la dolce tempra del carattere, il jazz. Mio nonno suonava l’armonica, piantava patate per non morire di fame mai, coltivava giardini, e aveva quella gentilezza di chi ne ha passate troppe. Ma in questo momento, mentre le mie mani pigiano su questi tasti e una lieve tristezza mi stringe il cuore, so che aveva rispettato la promessa: il suo copione. Quando ero piccolo non avevo alcun cellulare: non esistevano. Avevo un computer fisso: non lo usavo mai. Non esisteva alcun social su cui raccontare cose inutili e cose apparentemente utili. Mi nutrivo di succhi in bottiglietta di vetro. Mangiavo grissini e nutella o mini würstel. Li gustavo con i miei amici su un pericoloso balcone vista mare di un cantiere fermo. Dopo la pioggia uscivo con la bici per fare delle gare sulle pozzanghere. Spesso andavo a comprare del latte ad una anziana che viveva sola con un cagnolino nero. Di solito giocavo nel cortile di casa a calcio con gli amici. Ogni quartiere aveva una squadra il cui nome era quello del supermercato vicino. Quando uno dei supermercati falliva, la squadra assumeva un nome ad interim; i nostri avversari così un giorno si presentarono sul campo come “I culi in fiamme”. Le sere d’estate giocavamo a nascondino almeno in venti, tornavamo a casa ad orari impossibili, o quando qualche anziana ci lanciava un secchio d’acqua. Era bello innamorarsi di notte: amori che non sarebbero stati mai corrisposti. Avevamo costruito una casa sull’albero, ma fu distrutta dalla costruzione di un enorme palazzo. Il calcio si poteva seguire su Tele+, una piattaforma per ricchi. Un giorno rubai una pesca in negozio e tornai trionfante tra gli altri: scontai l’oltraggio al settimo comandamento con trenta velocissime preghiere prima della comunione. Nel 2001 la Melevisione, un programma per bambini, fu interrotta dall’attentato alle torri gemelle. Esistevano altre cose al di fuori della nostra serenità. Ma quello che contava era che eravamo insieme. Le notizie che leggevo potevano essere di due tipi: vere o arrivate in ritardo. Quelle che leggo oggi sono di tre tipi: vere, troppo in anticipo, false.
Ho un figlio, ma non posso vederlo. Non sa leggere come dovrebbe saper fare. Ha frequentato le scuole elementari da casa. Ennesima pandemia. La sua autostima è bassa. Ha una vita prevalentemente virtuale. Soffre di qualche affetto mancato. Forse il mio? Ha pochi amici. Ma non è stato giusto scagliarsi contro un anno funesto, se esso invece doveva essere prima compreso. Quelle privazioni dovevano semmai essere recuperate, e con urgenza. Senza parlarne troppo. Una guerra o una pandemia presto o tardi incidono in modo subdolo sulla psicologia delle persone. Mio figlio aveva ritardato il suo appuntamento col copione. Ne sono certo? No. Avrebbe dovuto incontrare l’amore? Non lo so. Le cose della vita di prima non esistono più. Succede sempre con le privazioni: all’inizio ti è mostrata la tua fragilità, poi capisci che il tuo carattere ne ha tratto un beneficio: è così che si diventa più forti. Demonizzare è inutile, comprendere è quello che conta. Non ho più molto tempo, prima che io neghi tutto quello che ho detto, a causa degli psicofarmaci che assumo, vorrei espormi in modo più diretto.
Mi chiamo Truman Levi. Oggi è il 1 marzo 2045. Sta succedendo di nuovo. Un macchinario nella clinica in cui vivo registra i miei pensieri e mi impone di pensarli. Vorrei dimenticare. Non ci riesco. Voglio dimenticare quello che mi fa male. Non posso. La tecnologia registra tutto. Mi danno un farmaco che corre veloce nel sangue e mi permette di pensare in due modi: uno razionale e l’altro no. Così posso perdere tempo solo con me stesso. Affermo, poi nego. Ci provo ogni giorno ad immaginare il mondo di dopo. Non ci riesco. Mi pare impossibile riuscirci quando ci sono ancora dentro. Non ho il giusto distacco. Non so come sarà il futuro. Tranne che per un indizio che mi hanno dato due sconosciuti. Mi chiedete chi sono. L’ho dimenticato e mi viene da piangere. Alzo lo sguardo. Davanti a me due pazienti seduti. Vestiti di blu, alle loro spalle lo sfondo bianco e asettico della clinica. Sorridono, quasi confortati dai loro stessi incessanti ricordi. Nessuno passerà più qui per abbracciarli. Nessuno ricorderà i loro nomi. Nessuno gli parlerà più con tanta tenerezza, quella che salverebbe tutti noi, qui dentro.


 

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