Le cose di dopo

Il Contest del FLA2020

POST

di Daniel R. R. Travis

Trapani, tra qualche domani.

Il birillo emerge dall'acqua come un mostro marino, o un vecchio dio.
Gigliola cerca di misurarlo: sarà più alto di lei?
Difficile dirlo con certezza: il suo corpo non è qui, ma nella lavanderia di casa. Da lì controlla a distanza la sua Protesi Olistica di Spostamento Transumano. L'ha sistemata lei stessa.
La casa è a Erice, qualche centinaio di metri sopra la città sommersa, all'interno delle mura e della cupola microclimatica vivibile.
La loro rete arriva giusto all’ex bowling. Abbastanza per guidarci la POST e, tragicamente, ricevere gli stream di sua madre: «Ho sempre odiato le frasi tipo "Ai tempi miei", ma ai tempi miei ti spostavi tu. E certo il disastro climatico, l’economia, l’ira del signore e tutto, ma a me guidare un robottino per le spedizioni fa specie. Mi sento un cartone giapponese di mia nonna.»
Gigliola sbuffa. Un prurito alla coscia la forza a staccarsi dai comandi.
Si rimette in posizione subito: la visiera diventa il suo campo visivo; segnali elettrici e vibrazioni le restituiscono una parvenza di tatto, di presenza.
Dietro il birillo bidimensionale, il vecchio bowling l’attende. Quasi tutto l’edificio è sott’acqua, e il tetto è diventato negli anni un centro di recupero: ospita un ripetitore, una stazione di ricarica POST, una cupoletta d’emergenza con microclima vivibile - in disuso - e montagne di rifiuti, scartati dalle spedizioni di recupero e lasciati qui a marcire, arrugginire, disseccarsi.
E ci vive lui.
«Da transumano a postumano è un attimo. POST l'abbiamo chiamata pure! Usarla così poi, per girare, mi fa specie due volte. Poi dice mia figlia, che la teniamo a fare se non ci guardo il cielo? E io non ho niente da risponderle, me ne sto zitta. Sempre quando cucino le viene la poesia!»
Gigliola stacca l'audio interno: ha sentito abbastanza mamma-in-rete per oggi.
Non conosce il nome del ragazzo. Lui si fa chiamare Rec, da "recupero". Smista la spazzatura: se trova qualcosa di utile, informa le comunità vicine; il resto lo invia al riciclaggio o all’inceneritore tramite droni (Assurdo che ci siano ancora inceneritori, no?, dice sempre mamma).
Se qualcosa gli "parla", parole sue, la mette da parte.
Cioè, non è lui a stare lì, ma la sua POST. Gigliola non ha mai visto Rec in carne e ossa. Conosce le sue zampe di metallo, le tre telecamere intorno al microfono che gli fa da testa. Conosce le sue quattro braccia meccaniche - due a tre dita per il lavoro e due di precisione, cromate, curatissime. L’ha aiutato lei a modificarle.
Non ha mai toccato la sua pelle, però, o visto il colore delle sue iridi.
Non le importa: quando è qui, con lui, è come se il suo corpo sparisse. Niente pruriti alla coscia, niente sudore, niente voce di mamma dalla cucina. Solo loro due, alla fine del mondo.
Lei e Rec, insieme.

Prima, Rec costruiva solo per riempire il tempo.
Aspettava uccelli e gechi, droni di trasporto e POST in spedizione. Gli animali erano curiosi, i droni meno. Per le spedizioni, lui era solo lo smistatore. Meglio così.
Quando non lavorava, costruiva: gabbiani di lamiera e fanali, planetoidi di cartacce, un David raffazzonato con plastica e vecchie riviste.
Gigliola aveva cambiato tutto. Rec aspettava lei, adesso. Lei che chiamava arte le sue costruzioni, e rideva con lui.
È qui presto, stavolta, ma non resta mai molto. Regole di comunità, per preservare energia.
«Cos’hai di nuovo?,» gli chiede dal microfono della POST. L’ha sistemata bene: quattro zampe per l’equilibrio, obiettivi a trecentosessanta gradi, tavola e remo per navigare installate sulla schiena. Il torso ruota su un vecchio volante d’auto e un paio di obiettivi sono smartphone, ma funziona.
«Un esperimento,» le risponde.

Gigliola segue Rec oltre ammassi di portiere e telai d’auto, libri e riviste ormai illeggibili, cibo in scatola, scampoli di vestiti. Raggiungono l’angolo che Rec ha adibito a proprio laboratorio e atelier.
Li circondano i suoi ultimi lavori, i suoi amici inerti di plastica e metallo. Quasi tutti finiscono distrutti o regalati. Non sono fatti per durare, le ha spiegato lui una volta, ma per essere goduti e morire, come tutto in questo mondo.
«Ecco…» L’audio arranca. O è lui a esitare? «È questo».
La base è fatta di pneumatici e cerniere di gomma. La sormonta una spirale colorata di pezzi di telai e carrozzerie, circuiti e schede madri. Un vaso dev’essere nascosto nella spirale, perché ne spuntano ciuffi di carote selvatiche e finocchi, e un ramo sottile al centro di tutto, con il teschio di un gabbiano in cima.
«Morto di fame, credo,» spiega Rec, «o malattia. Non tengo le ossa di solito! Questo però… Pensi che sia crudele?» La sua voce raschia sul microfono. «Disumano?»
Gigliola vorrebbe baciare via la sua insicurezza; non può. Nel buio della lavanderia, stringe gli occhi per scacciare una lacrima fastidiosa.
Rec non vuole dirle dove vive. Comunque, con tutte le norme di comunità, servirebbe a poco.
La scarica del contatto la raggiunge: senza volere, ha sfiorato la mano della POST di Rec con la propria. La scintilla le fa rizzare i peli sulle braccia e inarcare la schiena: è diversa dalle solite.
Non si è mai sentita così, finora.
Non parla. Rec non l’allontana. Restano immobili per un po’.
Anche dopo la fine del mondo, pensa, anche attraverso armature vuote, c’è amore. Si sente arrossire.
«Devo andare,» dice un’eternità dopo, «o mi staccheranno il controllo».
«Alla prossima settimana?»
«Sì. Sempre».
Lascia che la POST raggiunga il magazzino ericino con il pilota automatico: il tempo è buono, le acque sono calme e lei non ha voglia di guidare sola.
Emerge nella lavanderia piena di panni umidi.
Sale le scale. In cucina, sua madre avrà bisogno d’aiuto.

Rec fissa la città sommersa senza quasi vederla. Solleva lo sguardo verso la montagna, dove Gigliola e la sua POST riposano.
Dovrà ricaricarsi tra poco.
Chissà com’è, riflette, avere un corpo a cui tornare. Chissà se un giorno le dirò la verità.
Gli viene in mente un titolo per la scultura: Amore alla fine del mondo.
Potrebbe persino tenerla.

 

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