Le cose di dopo

Il Contest del FLA2020

UNA NOTTE IN LAGUNA

di T. P. Altoè

«Secondo te questo si può mangiare?»
«E io come cazzo faccio a saperlo?»
Silenzio. Un sospiro.
«Da’ qua, fa’ vedere.»
Rigira il tubero tra le mani. È viola, molliccio, puzza da morire.
«Mai vista ‘na roba del genere.»
E lo ributta per terra.
Continuano a camminare, rovistando tra i detriti e le macerie.
«Ecco qua, guarda, qua devi cercare!» dice, spostando una lastra di plastica. «’Ste qua sì che funzionano bene, se qua ci cresce ancora qualcosa lo trovi qua sotto, che trattiene tutto l’umido.»
L’altro annuisce. Spostano, scavano, imprecano, ma non ottengono niente dalla terra secca e dura e fredda come la notte desertica in cui si ritrovano.
L’altro inciampa, cade con tutto il suo peso su una caviglia. Il vecchio allunga una mano per aiutarlo ad alzarsi. Si siedono su quello che una volta era un divano, o il sedile di una macchina, chi lo sa. Tirano il fiato, l’altro si massaggia la caviglia, basta che non sia slogata o rotta, allora sì che è davvero finita.
«Sai» comincia a dire «comincio a dimenticarmi com’era fatta la mia casa. Com’era vivere normalmente.»
«Pure io. Saran passati quanti? Dieci, quindici anni?»
«Boh, così tanti? Cristo, non mi pareva.»
Altro silenzio. Non c’è più molto da dire, di questi tempi.
«Chissà se pioverà domani.»
«Ma che pioggia e pioggia.»
«Non sai che darei per una sigaretta.»
«Pure io.»
Se ne stanno così, seduti su un pezzo da museo, a guardare la notte. È tersa, si vedono le stelle, tutte. Prima non si vedevano, colpa dell’inquinamento della luce o come lo chiamavano. Tanto ora l’elettricità non esiste più, almeno possono vedere il cielo in tutto il suo splendore.
«Ce la fai a camminare?» chiede il vecchio dopo un po’.
«Credo di sì.»
«Non abbiamo ancora abbastanza cibo» dice il vecchio, facendo dondolare il secchio che si stava trascinando dietro e in cui sbatacchiano due miseri bitorzoli terrosi. «Gli altri si scocceranno da morire se torniamo senza niente. E tra un po’ si leva pure il sole.»
Riprendono a camminare, più in fretta di prima. Meglio non farsi trovare ancora in giro quando arriverà l’alba.
Continuano a cercare, e il più giovane fa un salto.
«Che c’è? Che hai trovato? Sarà mica uno di quei ragni che saltano vero?» chiede il vecchio, facendo qualche passo indietro.
Il più giovane scuote piano la testa, come se un movimento più deciso potesse far sparire la visione che ha davanti. Indica con la mano qualcosa sul terreno, nascosto tra pezzi di mattoni e briciole di cemento. La luce delle stelle si riflette su una lamiera, e l’effetto ricorda un po’ quello dei riflettori degli stadi, quando ancora esistevano, gli stadi.
Il vecchio strizza gli occhi, cercando di indovinare i contorni della cosa che ha tanto estasiato il ragazzo. Poi un guizzo di colore gli fa tornare la tachicardia. Gesù, era dai tempi delle grandi trombe d’aria della Pianura Padana che non aveva la tachicardia. È una bella sensazione, questa di scoprire che può ancora emozionarsi per qualcosa.
Scosta piano i pezzi di cemento e con le dita ruvide, bruciate dal caldo e dal lavoro e dagli anni passati in questo mondo mutato e mutante, carezza piano le foglioline neonate.
«Cosa facciamo?» chiede il più giovane.
«Ma che vuoi fare, porca miseria! La lasciamo qui no? E non diciamo a nessuno che l’abbiamo trovata. Ci manca solo che qualche cervellone decida di staccarla e cercare di farla crescere giù al rifugio.»
Il più giovane annuisce, poi si congela di nuovo.
«Hai sentito?» chiede.
«No, cosa?»
«Laggiù.»
I due si acquattano maldestri dietro una statua, precipitata e poi sbriciolata dal sole inclemente dei giorni. Però si possono intravedere ancora la testa leonina e le ali spiegate, e loro si ricordano quanto era bella, prima.
Osservano il buio intorno a loro, che prende forma e diventa simile a loro. Altre due figure, due figure umane.
«Chi sono, tu che hai gli occhi più buoni dei miei?» chiede il vecchio.
«Non lo so,» risponde l’altro «non mi pare di conoscerli.»
Li osservano mentre si avvicinano sempre di più, mentre li superano e poi rovistano dove loro sanno già che non c’è più niente.
Con il cuore in gola li vedono avvicinarsi al loro scrigno, a quel buco nel terreno che custodisce la loro preziosa scoperta. Senza pensare il ragazzo salta fuori dal loro nascondiglio. Imprecando il vecchio lo segue.
I due sconosciuti estraggono un pezzo di ferro appuntito, il vecchio e il giovane alzano le mani.
«Chi siete? Da dove venite?»
«Siamo come voi, e veniamo dal rifugio oltre la laguna» risponde il più giovane.
I due sconosciuti si guardano, si consultano, sono un uomo e una donna.
«C’è posto pure per voi, se volete» dice il vecchio. «C’è sempre bisogno di braccia in più, se vogliamo tirare avanti.»
Gli altri due si guardano, abbassano l’arma improvvisata, li seguono.
I quattro attraversano quella che una volta era una laguna, zigzagando tra i pali di legno che una volta avevano sostenuto palazzi e musei. Il vecchio e il giovane, che zoppica sempre di più, si scambiano uno sguardo di sottecchi. Avrebbero pensato a cosa fare della loro scoperta un altro giorno.
«Svelti, svelti, sbrigatevi» dice il vecchio, indicando l’est. «Già si vede il chiaro laggiù, meglio non farsi trovare fuori quando spunta il sole.»

 

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